Pubblicato da: Luca | 17 marzo 2013

Il blog purtroppo non è aggiornato. Potete seguire qui

le mie ultime uscite.

Qua invece trovate alcuni dei miei scatti preferiti.

Se desiderate informazioni riguardo uno degli itinerari, non esitate a contattarmi.

@Luca

Pubblicato da: Luca | 28 agosto 2012

Girovagando nel Parco del Monte Avic


Quando:
29-30 luglio 2012

Chi c’era:
Luca, Andreis

Percorso:
Chapy – Lago de Ratè – Colle della Gran Rossa – Gran Rossa – Gran Lago – Lago des Heures – Punta Mezdove (2827 m)– Monte Iverta (2839 m)– Monte Belplà (2829 m)– Gran Lago – Lago Cornuto – Lago Bianco – Lago Nero – Rifugio Barbustel – Lago Vallet – Colle Lago Bianco – Monte Torretta (2539 m)– Lago Vernoille – Chapy

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Ci sono circostante propizie a “grandi salite” ed altre (ahimè più frequenti) nelle quali occorre accontentarsi. Domenica e lunedì scorsi facevano parte di quest’ultime. La cara e piovosa Lombardia era necessariamente da scartare, il proseguimento dell’esplorazione della sorprendente Ossola non era propriamente indicata, pure lo sconfinamento in terra Svizzera pareva sconsigliato. Il sole, in pratica, sembrava voler splendere unicamente sulla bassa Val d’Aosta. Si può quindi facilmente comprendere perchè la scelta ricadde sulla zona del parco del monte Avic, nella valle di Champdepraz (destra orografica della Vallèe). Fatti quattro calcoli, consultati alcuni stralci di cartina, “estorte” alcune informazioni qua e là, ci ritroviamo sulla sconnessa strada per Dondena pronti a seguire l’itinerario prefissato, ma altresì preparati a cambiare idea col corso degli eventi. Ci avviamo lungo una mulattiera, con l’intenzione di raggiungere quello che chiamano il Gran Lago, sebbene le uniche indicazioni presenti segnalino il lago de Ratè, che peraltro non figura nello schizzo di mappa che ci portiamo in tasca.

Lo scenario è quello della tipica tarda mattinata estiva: afa, foschia, nuvolacce, verde scialbo e anonimo. Occorrerà faticosamente salire per sperare nel cambiamento. Raggiunto il lago de Ratè, tutto sommato apprezzabile, risulta evidente che per seguire il nostro spannometrico programma dovremo mproseguire letteralmente a naso verso quello che potrebbe essere il colle della Gran Rossa, porta di accesso sud-occidentale al parco. Gravati dal peso della tenda, seguiamo a testa bassa gli sporadici ometti presenti. Una precaria pietraia si alterna a terriccio e rare zolle erbose, il tentativo di minimizzare gli sforzi evitando tutto quel che si muove risulta vano. Con caparbietà raggiungiamo il colle che regala qualche discreto scorcio sulla zona del Gran Lago, l’adiacente monte Glacier, il lontano monte Avic. Abbandonata in cuor nostro l’idea di raggiungere la montagna che dà nome al parco, abbandonati gli zaini, abbandonato un po’ tutto quanto, facciamo una rapida sgambata su quella che dovrebbe essere la grigia cima della Gran Rossa.

Urge aprire una parentesi: tutti i toponimi qui enunciati sono da prendere col beneficio del dubbio, dal momento che mutano da carta a carta. Lungi poi dal pensare che in loco ci sia qualche riferimento a nomi o segnalazione dei luoghi fuori dall’unico tracciato iperfrequentato. Chiusa parentesi.

Qualsiasi escursionista ragionevole si sarebbe fermato qui, avrebbe scattato le sue belle fotine e se ne sarebbe tornato indietro gaio e appagato. Non è così per noi che apparteniamo alla razza di quelli che vogliono farsi del male a tutti i costi. Nuovamente ricurvi sotto il peso dello zaino, ci buttiamo a capofitto sul marcissimo versante settentrionale della valletta, costellato di instabili piode e infidi, profondi buchi, con l’intento di raggiungere la sponda del Gran Lago, laddove potremo con più calma riprogrammare il resto della giornata.

Con attenzione ed estrema fiducia nella coordinazione propriocettiva caviglie-cervello, ci caliamo fino a lambire le scure acque del Gran Lago. Con un ampio semicerchio ne costeggiamo la sponda e, ritrovato il sentiero, lo seguiamo fino ad un successivo laghetto senza nome. Ci piace: pranziamo all’ora della merenda e montiamo la tenda. E comunque, pur di toglierci di dosso quel dolce peso, ce lo saremmo fatto piacere.

Con maggiore libertà ci incamminiamo ora in direzione del lago Gelato. Facciamo giusto un pensiero all’Avic, accontentarsi rinunciandovi a priori? Non sia mai!
Superiamo un gruppetto di disorientati escursionisti ritardatari, talmente confusi da contagiarci. Nel bel mezzo del collettivo stato confusionale, abbiamo ugualmente modo di ammirare il lac des Heures che, come un globo oculare infisso nel terreno, sembra fissarci cambiando inclinazione di sguardo ad ogni nostro passo. Lo scenario è ora più coinvolgente, i colori, ravvivati anche dalla luce serale, sono intensi e molteplici. Pare uno scorcio di Islanda.

Presi da uno slancio di avidità, saliamo un trittico di cime nei dintorni: la quasi anonima punta Mezodve, il panettone Iverta (sfasciumi immondi al posto di uvetta e canditi), l’allungato Belplà. E un quarto picco. Ciascuno ha un piccolo grande panorama da donarci. Con la vana gloria dei conquistatori di cime marginali, ritorniamo sui nostri passi fino al pianoro sul quale campeggia, paziente, la nostra tendina, già ampiamente coccolata dalle ombre.

La conca, dominata dall’austero monte Glacier, è preda dell’oscurità e del freddo, nulla possono le pur alte montagne: ad una ad una capitolano anch’esse sotto i puntuali colpi della notte. Otto ore di buio e fresco, stelle e sogni, silenzio e sonno.

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Poi l’alba.

Aprire la cerniera della tenda è un rito che andrebbe eseguito con una certa devozione. Troppo spesso capita invece che mi lasci prendere dalla fretta e lo compia con superficialità, quella di chi è ancora mezzo addormentato. Veniamo colti impreparati dall’impeto di una luce calda: in men che non si dica la tenda ne è inondata; l’uscita dal saccoapelo è resa meno traumatica. Il programma odierno di massima prevede la discesa verso il cuore del parco ed i quattro laghi che, da soli, dovrebbero valere l’intera escursione. Soprattutto in una giornata tersa come promette essere quella di oggi.

Al comodo sentiero preferiamo ancora una volta il tracciato di una linea immaginaria che, ad intuito, lambisca pozze e torbiere delle quali è ricca la zona. Incontriamo un primo specchio d’acqua che ci costringe ad una risalita, la seconda offre un bel riflesso per il monte Glacier, una terza è interessante spunto fotografico, alla quarta diciamo “basta”. Ci abbassiamo allora più decisamente per canali e insenature finché, attraversato il torrente, riguadagniamo la traccia bollata.
Il sentiero, costituendo la direttrice principale del parco, è estremamente battuto. Non passa molto che incrociamo i primi gitanti mattinieri. L’espressione dei loro volti è eloquente: stiamo andando controcorrente. Scelta che si rivelerà felice allorquando, terminata la processione di escursionisti, rimarremo liberi di goderci lo splendore dei laghi. Col diminuire della quota, fa la comparsa un rado bosco di conifere, piuttosto inusuale per gli standard ai quali siamo abituati.

Al verde dei larici e all’arancione delle solide rocce tutto intorno, si accompagna ora il blu profondo del laghi Cornuto e Nero. Ma la vera celebrità è il lago Bianco che, grazie alla sua invidiabile posizione, regala vedute di pregio, incorniciate dal bosco e impreziosite dai giganti valdostani in lontananza. Lo spettacolo è notevole, le acque cristalline sono una calamita per gli occhi e per l’obiettivo della fotocamera. Impossibile non appropinquarsi ricercando le inquadrature migliori per poi scoprire che la più bella visione di insieme si ha tra quei sassi lassù. Infine il meritato riposo, sul grande sasso, al sole. Chiudo gli occhi. Una leggera brezza muove le fronde mimando il rumore delle onde, il lago si trasforma in un esotico mare, la stanchezza svanisce, la mente è libera di fantasticare.

Siccome dopo un po’ anche l’ozio stanca, ci rimettiamo in marcia, esausti. Ci imbattiamo nel rifugio; facciamo appena in tempo a leggerne il nome “Bar..bu..stel” che già gli siamo lontani, ammaliati dal lago Vallet, altra azzurrissima perla incastonata tra i larici. Proseguiamo poi alla volta del colle di Lac Blanc sopra il quale svetta l’ardito profilo della Torretta: duecentocinquanta metri semiverticali di sfasciume doc. Dalla sommità è istruttivo il colpo d’occhio che si ha sulla zona dei laghi e sulle cime lambite ieri. Ridiscesi con attenzione, ci dirigiamo per evidente sentiero verso il lago Vernoille, divallando infine nel vallone da dove ieri era incominciato, con qualche trascurabile punto di domanda, il nostro inedito giro.

Pubblicato da: Luca | 27 luglio 2012

Pizzo Badile: spigolo nord e rientro

Quando: 21-22-23 luglio 2012
Chi c’era: Luca, Maurizio, Alessio, Andrea
Percorso: Laret di Bondo – Rifugio Sasc Furà – Spigolo Nord – Pizzo Badile (3008 m) – Via normale – Passo Porcellizzo – Bivacco Pedroni dal Prà – Passo delle Trubinasca – Rifugio Sasc Furà – Laret di Bondo

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Siamo in quattro decisi ad affrontare una via che, seppur facile tecnicamente, richiede un impegno psicofisico non indifferente. Ci sono voluti tre anni perchè la semplice idea si concretizzasse in tentativo. Per quanto mi riguarda, serbo qualche interrogativo. Primo tra tutti il più che normale “sarò all’altezza?” Quindi: “sto andando con i compagni giusti?”. E ancora: “il meteo sarà clemente, l’attrezzatura adeguata?”

La prima domanda è quella che mi preoccupa meno, credo non per presunzione ma per conoscenza dei miei mezzi, messi alla prova proprio in questi giorni su Bernina e Disgrazia: tecnicamente padroneggio il IV grado, l’allenamento non mi fa difetto. Ricevo attestati di fiducia anche da amici e conoscenti. Del mio compagno di cordata mi fido, abbiamo affrontato qualche via insieme con un buon feeling, in montagna ci siamo andati spesso insieme. So che dovrò accollarmi più della metà dei tiri da primo, ma non è un problema. Le variabili del meteo sono solo in parte controllabili, il sabato non era un granchè, la domenica sembrava buona, il lunedì ottimo. A dir la verità io, rispetto al mio socio, ero più pessimista e avevo scorto qualche ora di nuvolosità nel pomeriggio della domenica. Bastava che nel gruppo qualcuno avesse sollevato qualche dubbio a riguardo e gli sarei andato dietro. Tralascio tanti dei pensieri sull’equipaggiamento limitandomi a dire che ero convinto di lasciare a casa la reflex (quasi mai accaduto prima), di portare vestiario pesante, di accollarmi il peso degli scarponi per la discesa, di comprare scarpette e imbrago nuovi (quelli vecchi sono rispettivamente rotte in punta e senza portamateriali su un lato). Quando metto al corrente mio padre dell’intenzione di salire il Badile gli si gelano le vene, tanto che dovrò dire una mezza bugia: c’è anche un istruttore CAI (in realtà uno della compagnia ha fatto il corso da trainer quest’anno). Questa cosa mi fa star male.

Calzati gli scarponi ci avviamo nel bosco alla volta del rifugio Sasc Furà. Le mie orecchie odono un “ma quanto cazzo è grosso, siam sicuri che vogliam andar su di lì”. Non ci faccio caso. Anzi sì: paradossalmente mi tranquillizzo ascoltando i dubbi altrui. Il sentiero non molla un secondo, si inerpica su quella che ha tutta l’aria di essere la prosecuzione dello spigolo della montagna. Sbuchiamo al rifugio. Ci sono parecchi stranieri, pochi hanno l’aria di sapere il fatto loro. A tentare lo spigolo saremo in 10: noi quattro, due cordate di bergamaschi e due milanesi. La serata passa pigra tra un piatto di pizzoccheri e qualche battuta sulla via. Prima di andare a dormire lancio un’ultima occhiata alla cima del Badile, ora immersa nelle nubi.

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La colazione proprio non mi va giù. Un paio di fette di pane con la marmellata e dell’acqua calda sporca di limone è l’unica roba che riesco ad ingurgitare. Rimpiango lo yogurt al mirtillo del Marinelli. Impaziente, attendo qualche minuto che tutti siano pronti ed esco. Fa freschino, o forse no. L’avvicinamento scorre veloce, la visione della montagna è commovente, i dubbi del giorno prima svaniscono, lasciando spazio all’ammirazione dell’estetica parete nord-est del Badile. Tento qualche foto a posa lunga mentre gli altri proseguono. Non ottengo il risultato sperato, me la prendo con la compattina; ci riprovo: già meglio. Non penso ad altro fin quando albeggia.

Proseguendo slegati, superiamo le prime commoventi placche alla volta del vero e proprio attacco. L’esposizione è già notevole, ma il terreno accessibile. Qualcuno si lega. Io e il socio, prima di sfoderare la corda, facciamo ancora una cinquantina di metri. Ci leghiamo. Abbandoniamo l’idea di procedere in conserva e ci diamo dentro con i tiri. Un occhio è alla roccia, l’altro alla nord-est di giallo coloratasi. Siamo alle calcagna dei bergamaschi e saliamo allo stesso ritmo. Almeno fino a quando prendiamo un piccolo “svantaggio”. E non riesco a spiegarmi la ragione. Complici anche le nuvole che già dalle 9 avvolgono la vetta e talvolta anche noi. Il fresco patito in sosta è per il momento compensato dall’energia termica sviluppata nel recuperare la corda.

Il tempo passa, sebbene non ne abbia la percezione. Le sensazioni sono tuttavia buone. Se c’è qualcosa di cui andar fiero è di aver azzeccato l’acquisto delle scarpette; i guanti, che non ho tolto per un solo minuto, non minano la sicurezza sugli appigli. Alessio invece, al quale già avevo prestato il cappello, accusa un po’ di stanchezza. Il feeling con Maurizio, compagno di cordata, si mantiene buono. Compio la prima involontaria variante alla via. Sudo. Ritorno sui miei passi. Avanzo.

Saranno le 15, non ne ho idea. Il tempo mi sembra volato. Non ne ho memoria neppure adesso. Forse il tizio in solitaria con la corda penzoloni dalle braghe se l’è portato con sè. Ripensandoci dev’essere andata proprio così. La verticalità di alcuni passaggi è come me l’ero immaginata: simpatica se appesi all’anellone, da farsela addosso in molti altri casi.

La densità nuvolosa sta aumentando, il vento sbuffa (sarà colpa del folle ragazzo dalla coda di nylon?) ed ecco un fine nevischio scendere dal cielo. A tutti i meterologi del pianeta devono essere fischiate le orecchie. Non ho idea se c’entri Murphy, ma il fatto che stiamo per affrontare la liscia placca fissurata sommitale mi insospettisce. Alessio ha una piccola crisi, io e Maurizio decidiamo di attendere lui e Andrea. Sono le 18 e non ho idea di quanto manchi ancora. Cengalo là di fianco e Trubinasca laggiù sono riferimenti aleatori.

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Sarebbe la sosta più comoda della via, se solo non soffiasse sto maledetto vento! Un terrazzino ideale per prender fiato e contemplare le vertiginose pareti tutt’intorno. Ma, talvolta, si fa presto a passare da un bel sogno ad un incubo. O almeno ad una sofferenza. Parte Andrea alla ricerca della retta via. Maurizio segue a ruota. Tremolanti come due foglie in balia di un’arietta tesa, io e Alessio a far sicura. I piedi sono due pezzi di ghiaccio, il tentativo di seppellirli tra le spire non fa altro che peggiorare le cose: in men che non si dica si forma lo spauracchio di ogni climber: il groviglio di corde. Con una dose di rassegnazione do fondo a ogni energia residua nel tentativo di sbrogliare nodi ed asole. Dovrò staccarmi dalla corda. Là davanti i cenni dei due andati in avanscoperta fanno pensare che la cosa vada per le lunghe. Alessio fa brutti pensieri, lo tranquillizzo con una sonora strofinata sul petto e con qualche parola senza senso. Vento infame! Leeeentameeeente sfilano le corde, si ode un “molla tutto”. Alessio può partire. Rimango solo.

Solo, al vento, tremolante. Rannicchiato per non disperdere calore. Dolorante perchè rannicchiato. La corda immobile, a volte mi tocca persino recuperarla. Nuvole velocissime salgono dal fondovalle. Si creano dal nulla per scorrere fino in vetta. Talvolta il sole, e dura come un battito di ciglia. Più spesso le pareti della punta Sant’Anna sono tutto quel che vedo e non sono certo una visione tranquillizzante. Andrea, che spunta periodicamente in lontananza, mi fa cenno di pazientare. Pazienta pazienta viene il mio momento. Dopo un’ora in sosta posso finalmente levarmi dal questo maledetto terrazzino. Mi ci vorrà un altro tiro da secondo per riprendermi. La vetta è ormai lì a portata di mano, è questione di poco. La avviciniamo mentre le nuvole si diradano beffardamente lasciando intravvedere le cime tutt’intorno. Come se non bastasse il cielo si tinge di un rosso che, oltre a far ben sperare per l’indomani, fa dimenticare il freddo e le sofferenze appena patite.

Non sapevo che dal Badile si vedesse il lago di Como. Sono scusato perchè non c’ero mai stato prima d’ora. In effetti è proprio questo che mi spinge a scalare le montagne: entrare in punta di piedi nella visuale che da esse si coglie. C’è anche una bella prospettiva della pala sommitale del Cengalo, si vede chiaramente il Disgrazia, una moltitudine aguzza di cime granitiche, parte della pianura Padana, la val Bregaglia e ovviamente le Orobie. Qualche foto l’ho fatta, alcune credo mosse considerata la poca luce residua e le mani intirizzite, almeno una spero di poterla guardare e riguardare a lungo. Una gelida folata di vento spazza via tali pensieri lasciando spazio unicamente alla voglia di stringersi nell’abbraccio degli amici tra le lamiere dell’aereo bivacco Redaelli. Strafogarsi di cioccolato e barrette sotto il peso di tre coperte è forse uno dei maggiori piaceri della vita. “Noi alpinisti” ci accontentiamo di poco.

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Non tutto il freddo vien per nuocere: è grazie a lui e all’effetto di vasocostrizione che sono costretto a buttar fuori il naso nel cuore della notte. Che stellata! E che visione sublime quella che ci si para dinnanzi al mattino. Più dolce e meno sconosciuto il panorama su questo versante. Il rifugio Gianetti è un puntino adagiato su una spiaggia di granito, il pizzo Porcellizzo e la costiera Ligoncio-cime del Calvo-Merdarola calamitano lo sguardo. Un pensiero alle Orobie, dove tutto è cominciato.

Con la relazione in mano ci avviamo in direzione di quella che sembra la via di discesa. Con piede fermo scendiamo per sfasciumi e canalini fino ad un anellone. Indecisi sul da farsi, vado in avanscoperta sulla fila di calate recentemente attrezzata. Non ci piacciono: risalgo. Si incastra la corda: ridiscendo e ririsalgo. Tali manovre ci portano via una mezz’ora abbondante. Aumenta la convinzione di scendere per la normale. Con alcune spassose doppie e una sana disarrampicata (le esperienze tra le care Orobie aiutano non poco su questi terreni), giungiamo alla croce Piatti-Castelli prima e ai nevai sottostanti infine. Al sicuro, forse.

Salutati Andrea e Alessio che scenderanno per la val Porcellizzo, io e Maurizio ci incamminiamo alla volta del passo Porcellizzo. E’ già primo pomeriggio. Per non farci mancare nulla, succede che, seguendo alcuni ometti, ci ritroviamo su un intaglio che ha tutto tranne l’aria di un passo. Fatti due conti è la bocchetta dalla quale sale la via normale alla punta Torelli. Tirati i debiti improperi, facciamo dietrofront. Con sofferenza guadagnamo il vero passo. Fatica che svanisce istantaneamente al solo affacciarsi sull’amata val Codera. L’incanto dei monti Conco, Gruf e Prata è insidiato dalla punta Trubinasca, da qui più ardita che mai. Mi innamoro del suo profilo. In un’altra vita, semmai mi incarnassi in un gracchio alpino, la salirò. Per ora me la gusto dal basso. E mi godo la visione del ghiacciaio di Trubinasca: non avrei mai immaginato che l’altissima val Codera nascondesse un tale, ennesimo ben di Dio. Nemmeno la rete, con le sue immagini di tutto e di più, ha intaccato la sua magia. Lo farà fra poco, chiedo anticipatamente perdono.

Non mi lascio scappare una scappata al bivacco Pedroni dal Pra. Saliscendiamo in direzione della bocchetta della Trubinasca, ultima asperità di giornata. Una serie di gelide catene permette di evitare uno sfasciume degno delle più marce Orobie e mette a dura prova i nervi di Maurizio. Superata anche quest’ostacolo non resta che chiudere l’anello con un ampio semicerchio che ci riporterà al rifugio Sasc Furà. Siamo esausti ed è legittimo. Il tempismo è ancora una volta riuscito: lo spigolo nord del Badile risalta maestoso sotto le luci della sera. Da qui lui è impressionante. Noi increduli. Lo osserviamo in tutte le tonalità del tramonto.

Tutti stranieri al rifugio, ciascuno sulle sue, ognuno con i propri pensieri e chissà quali mete per l’indomani. Vien voglia di ricominciare il giro. Un nuovo giro di giostra? Questo è stato memorabile, il prossimo chissà..

Pubblicato da: Luca | 27 luglio 2012

Monte Disgrazia

Quando: 18-19 luglio 2012
Chi c’era: Luca, Francesco
Percorso: Predarossa – Rifugio  Ponti – Ghiacciaio di Predarossa – Sella di Pioda – Monte Disgrazia (3678 m) – Predarossa

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Ricevo una mail inaspettata da un amico. E’ per il Disgrazia. Dico sì. Dico si può. La strada di Predarossa è stata asfaltata per l’occasione: se non è un tappeto rosso, è quantomeno un segnale di benvenuto. Siamo carichi come muli: chissà perchè mi sono messo in testa che questo montagnone vada affrontato in tenda.

La piana di Predarossa è piena di gitanti gioiosi. Da posto paradisiaco quale è, se li merita tutti. Il Disgrazia è già visibile. La sua sagoma è inconfondibile: sfondo costante di numerose camminate orobiche, ora ci si erge proprio dinanzi. Se non è timore quel che provo è almeno riverenza. Si nasconde per ricomparire tra i larici della piana, riempie bucolici quadretti, ravviva i detritici pendii lassù. E con esso i Corni Bruciati, di una precarietà disarmante, attraenti. Il torrente è padrone della valle, ci accompagna con il suo rumore bianco. Dalla prima enorme piana si passa ad una seconda. L’idea sarebbe quella di piantare qui la tenda. Tra estetica e razionalità prevale però quest’ultima. In fondo oggi ci siamo travestiti da alpinisti. Saliamo ancora un paio di centinaia di metri. Non sono molti gli spiazzi che fanno al caso nostro. Scaraventare a terra lo zaino è un sollievo. In men che non si dica la tenda è montata, la cena consumata, la via decisa, la sveglia puntata. E’ un tran tran che puntualmente commuove, ed è in questi attimi che vien fuori la verità: ci si scopre in sintonia con il compagno di cordata; se devono nascere contrasti questo è il momento.

Alle quattro e trenta abbandoniamo il nostro giaciglio alla volta del rifugio Ponti. La salita è agevole, le indicazioni presenti. Lo raggiungiamo: tutto tace. Silenziosi come due ladri, proseguiamo verso la morena. Se tutto andrà per il meglio, la vetta sarà la refurtiva, dell’amplissimo panorama faremo bottino. Il saldo granito grigio, si mischia con il marrone del serpentino. E’ l’aurora, progressivamente tutto si arrossa, le percezioni mutano, l’aria è frizzante. Stiamo bene.

L’ormai esangue ghiacciaio di Predarossa è l’accesso alla sella di Pioda. E’ la scala per un mondo sconfinato, per panorami a trecentosessanta gradi che nemmeno la fastidiosa copertura nuvolosa di inizio mattinata può intaccare. Ci affacciamo sulla parete nord, una folata di vento ci investe. Poi una seconda e un’altra ancora. Mi sa tanto che il signor Eolo è si è svegliato col piede storto anche quest’oggi. Mutismo e rassegnazione. Pensieri di rinuncia, sguardo di intesa col socio. Il meno è fatto, come si suol dire: ora il gioco si fa duro.

Approfittiamo dell’ultima neve rimasta per guadagnare metri preziosi, compiamo i primi passi di arrampicata verso la cresta. Non sarebbe prettamente la via migliore ma ci arrabattiamo. Siamo determinati. Dobbiamo esserlo visto che siamo soli sulla montagna. Sensazione non certo del tutto nuova visti i posti dove in genere mi caccio, ma comunque particolare visto che siamo su un itinerario alpinistico.

Raggiunto il crinale avanziamo decisi. Alle prime difficoltà ci legheremo. Sul nevaio a 40° affiora un leggero ghiaccio. Non importa, lo superiamo facendo mordere la piccozza. I passaggi esposti non sono un reale problema: niente corda nemmeno qui. La temuta impennata di cresta si rivela un bluff; solo il famoso cavallo di Bronzo fa traballare le nostre sicurezze. E d’altra parte, una volta superatolo, siamo già in vetta.

Una volta tanto siamo stati svelti. Quattro ore e mezza da quota 2300 non è malaccio. Stiamo diventanto seri? Nemmeno il tempo di darsi una risposta che spunta una sagoma rossa in lontananza. Solitaria e sciolta. Non passa molto e siamo in compagnia. Ciao Matteo! Con una conservina sprotetta ma ugualmente utile, torniamo a scendere in direzione della sella di Pioda, inebriati da un mare di granitiche cime aguzze. Bello e arcigno il Masino!

Dalla sella in giù è uno lento scivolare a valle, liberandosi dapprima di ramponi, caschetto e robe varie; spaccandosi infine la schiena con tenda, sacco a pelo e chi più ne ha più ne metta. Questo Disgrazia me l’ero tracciato in testa così. Tale e quale.

Pubblicato da: Luca | 27 luglio 2012

Pizzo Bernina

Quando: 16-17 luglio 2012
Chi c’era: Luca, Lupin
Percorso: Campomoro – Rifugio Carate – Bocchetta delle Forbici – Rifugio Marinelli Bombardieri – Vedretta di Scerscen superiore – Canalone di Crest’Aguzza – Rifugio Marco e Rosa – Punta Perrucchetti (cima italiana) – Pizzo Bernina (4050 m) – Ferrata – Campomoro

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Di nome faccio indecisione, di carattere sono discontinuo, eppure quando ho inviato quel sms all’amico Lupin ero più che convinto. “Berniniamo?” Pronta è la risposta affermativa. A posteriori peccato solo non aver colto la proposta iniziale di farlo domenica e lunedì.
Nel primo pomeriggio atterriamo sul pianeta Campomoro, direzione rifugio Marinelli. Il percorso escursionistico me l’ero apposta tenuto per quando avrei tentato il montagnone di Lombardia per eccellenza, Lupin lo conosce come le sue tasche e lo snocciola strada facendo. Saprò quindi in anticipo quando soffrire sul ripido, quando tirare il fiato sul pianoro nel bosco, dove riempire la borraccia, quali montagne appariranno all’orizzonte.
Non importa se è pomeriggio inoltrato, il cielo è quello di una fresca mattinata senza nuvole, i colori sono vivaci, non quelli scialbi di mezz’estate. La vallata merita assai.
Dalla bocchetta delle Forbici lo scenario muta e si viene proiettati nell’ambiente delle alte quote. Il pensiero vola alto. La fatica, che per qualche tempo era stata accantonata, torna a farsi sentire in vista del rifugio Marinelli.

La cena e la serata trascorrono serene, mannaggia a me che non so dire di no. Il mal di testa è in agguato, i coliformi lavorano nell’intestino, all’insonnia non faccio più caso.
Sono le 3.42 quando mi prendo i primi insulti dal socio per averlo svegliato in malo modo tre minuti prima della sveglia prefissata. Quant’è buono lo yogurt al mirtillo con i cereali. Tutti i rifugi dovrebbero offrirlo per contratto.

Siamo i primi a lasciare il caldo della Marinelli. Non fa freddo nemmeno fuori per la verità. Saltelliamo per sfasciumi. Al buio. Il fresco permette una buona andatura. Mi sento bene. Arriva il momento del ghiacciaio. Sui 40 metri di corda riesco ad aggrovigliarne 38: ho fatto di meglio. Altri insulti, stavolta
giustificati.
Il ghiacciaio dello Scerscen è uno spettacolo. Roseg, Sella, Tremoggia.. scatto a raffica. Il Bernina non attrae più di tanto da qui. Via veloci noncuranti dei possibili buchi. Direzione canalone di Crest’Aguzza. Passo in testa, faccio l’andatura. Sono in forma. Caspita se sono in forma, le partitelle di basket al campetto mi han fatto bene. Della terminale? Delle aumentate pendenze? Me ne frego. Un po’ meno delle nuvole brutte e cattive che non vogliono sapere di andarsene. Si aggiunge il vento e il morale cala
necessariamente un po’.

Il Marco e Rosa è un rifugio serio con gestori seri. “Cos’aspettate a partire alla volta della vetta?” E’ quel che volevamo sentirci dire. Usciamo nella bufera e, come d’incanto, le nubi si dissolvono lasciando intravedere tutto il ben di dio lì attorno. Sono carico a molla e continuo ad essere in forma. Alcune cordate, fallita la cima, sono di ritorno. Ancora una volta me ne frego. Sto Bernina s’ha da fare. Qui ed ora.

Superiamo i primi saltini esposti pervenendo alla paretina sotto la cima Perrucchetti, ad esser puntigliosi, la più alta di Lombardia. Attacco con decisione il primo risalto, opto per una psicologica assicurazione sul secondo. E via di conserva. La cresta tanto bella se vista in foto, assomiglia quest’oggi ad un crinale orobico qualsiasi. Pazienza. Pazienza un cavolo. Rosico. Rosico fino in vista della cima, quando realizzo che, nel nostro piccolo, stiamo per completare un’impresa. Alzo le braccia al cielo. Talvolta lo faccio, ma quando sono solo e nessuno mi vede. Stavolta faccio un’eccezione. Un brivido mi scuote, non so se sia il vento che si insinua nel mio inadeguato vestiario o cos’altro. Sono (siamo) in forma.

Pubblicato da: Luca | 3 settembre 2011

Pizzo Quadro

Quando: 3 settembre 2011
Chi c’era: Luca, March
Percorso: Starleggia – Alpe Bocci – Alpe Morone – Alpe Fornel – Bivacco del Servizio – Pizzo Quadro (3013 m) – Starleggia

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In questo sabato di meteo incerto, riusciamo a trovare la cima maggiormente avvolta nelle nuvole di tutto il circondario. Mentre le vette tutt’intorno si liberano progressivamente del loro cappello di nubi, il pizzo Quadro rimarrà pressochè la sola avvolta nelle nebbie.
Partiti senza pretese, torniamo con una discreta cimetta in saccoccia e un nuovo posto conosciuto. La parte inferiore dell’itinerario attraversa vasti pratoni costellati da nuclei di baite; si sale quindi sull’ampia cresta che si percorre fino al bivacco del Servizio. Da qui la via può risultare poco chiara tant’è che noi ce ne costruiamo una alternativa per un primo tratto. La cresta finale è più facile del sentito dire restando, a parer mio, nell’ambito del I grado.
Ritorno per la stessa via. Nei pressi del bivacco trovo uno scheletro di pecora pressochè completo e faccio incetta di ossa per la mia collezione.

Pubblicato da: Luca | 10 luglio 2011

Cima Plem

Quando: 10 luglio 2011
Chi c’era: Luca, Andreis
Percorso: Ponte del Guat – Lago Baitone – Rifugio Tonolini – Passo del Cristallo – Cima Plem (3182 m) – Val Miller – Rifugio Gnutti – Scale del Miller – Ponte del Guat

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Bella escursione alla cima Plem, proprio di fronte all’Adamello. Saliti dalla valle del rifugio Tonolini, scesi per la val Miller.
Cinquanta metri sotto la vetta, mentre tento una insulsa inquadratura, Andreis, 20 metri più su, smuove un masso enorme come un microonde (e non è un modo di dire). Io lo guardo e convinto di non essere in traiettoria lo studio scendere. A tre metri da me, il macigno fa un energico rimbalzo frantumandosi in mille pezzi, un paio dei quali mi centrano un polpaccio e un gomito. Sul momento sembra tutto a posto, ma non passa molto tempo prima di accorgermi che il danno c’è stato.
Con orgoglio raggiungo la vetta convinto che la discesa sarà un problema. Va poi meglio del previsto fino al rifugio Gnutti. Le scale del Miller sono invece un calvario finchè sull’ultimo tratto di sterrata sono impossibilitato ad appoggiare il piede. Con alcuni saltelli riesco comunque a raggiungere l’auto.
A parte l’infortunio che mi costringe a muovermi con le stampelle, è stata una piacevole escursione con un meteo tutto sommato clemente.

Pubblicato da: Luca | 3 luglio 2011

Pizzo Tremogge, pizzo Malenco e Sassa D’Entova

Quando: 2-3 luglio 2011
Chi c’era: Luca, March
Percorso: San Giuseppe (località Prati della Costa) – Alpe Entova – Rifugio Longoni – Passo Tremogge – Passo Scerscen – Bivacco Colombo Aurora Bijelich – Pizzo Tremogge (3441 m) – Pizzo Malenco (3438 m) – Sassa D’Entova (3331 m) – Ex Rifugio Scerscen – Alpe Entova – San Giuseppe

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E’ bastata una foto per farmi incuriosire. Non era particolarmente bella ma è bastata per farmi entrare in testa quel nome che mai prima d’ora avevo sentito: pizzo Tremogge. La sua gialla roccia calcarea lo rende unico in tutte le alpi, lombarde perlomeno. La localizzazione, proprio adiacente al gruppo del Bernina, dovrebbe essere strategica pensavo. Lo scorso finesettimana decido di andare a toccare con mano quello che da tempo mi sono solo immaginato.
Le notizie in rete scarseggiano (e questo mi intriga ancora di più): la salita non è relazionata se non da un vecchio report del Grigna (gran intenditore); nemmeno il Franz ci è stato o ne conosce le vie di salita..
Con Marco ed un minimo di ambizione, puntiamo al possibile concatenamento di altre due cime vicine: il pizzo Malenco e la Sassa d’Entova. L’itinerario ce lo costruiremo strada facendo, rimane solo da capire dove e come poter dormire. Analizzando la cartina, il luogo migliore sembra il bivacco Colombo al passo Scerscen. Notizie pessimistiche sulle sue condizioni non ci fanno desistere.
Ci troviamo quindi alle 13 di sabato nei pressi di San Giuseppe per partire alla volta del rifugio Longoni e del passo Tremogge. Da qui il programma è quello di raggiungere il bivacco aggirando il pizzo dal ghiacciaio svizzero. Son circa 1800 m di dislivello da compiere con dei discreti zaini. Non un’impresa impossibile, ma c’è sempre l’incognita delle condizioni del bivacco che raggiungeremo in tarda serata.. ci saranno coperte asciutte?
Dopo qualche tentennamento raggiungiamo l’alpe Entova prima e il Longoni poi. Due chiacchiere col rifugista ci chiariscono il percorso, l’incognita bivacco però rimane. Abbandonato il chiacchiericcio del rifugio, ci inerpichiamo per il vallone, contornato ad est dalla nostra triade, ad ovest dalla Sassa di Fora. I massi sono di mille colori diversi, prime testimonianze della calcarea montagna. Superiamo un laghetto in disgelo fino a raggiungere il passo: la vista spazia ora sull’Engadina e la val di Fex.
Messo piede sul ghiacciaio, proseguiamo alla volta del passo Scerscen. La colorata mole del Tremogge ci lascia senza fiato: è bellissimo, proprio come l’avevo immaginato. Qualche timido crepaccio, un ripido pendio nevoso e immani sfasciumi simil-orobici ci separano ora dal bivacco che raggiungiamo circa alle 20 appena prima che un vento tempestoso si levi. Non faccio in tempo a cogliere la bellezza del luogo in cui mi trovo che Marco si è già assicurato della praticabilità del bivacco e della presenza di coperte asciutte.
Lo scenario che ho davanti agli occhi è di quelli che vorresti continuare a guardare per ore e ore.. peccato che il vento non lo permetta. In men che non si dica son mezzo congelato; non resta che rifugiarsi nel bivacco per quella che si profila come una lunga notte. Il freddo e la stanchezza seccano il socio che cade in un sonno profondo. Io mi rifocillo (leggasi mi faccio fuori una decina di pizzette ed ogni cosa mi capiti a tiro). Nella penombra del minuto scatolino che è il bivacco Colombo, rimango sveglio, solo con i miei pensieri e con il gorgogliare del vento. Do un’occhiata al quaderno del bivacco: sono compilate non più di un paio di pagine per anno, mi salta all’occhio il nome di Benigno Balatti. Mi addormento con tre chili di coperte sul corpo.
L’indomani, con tutta calma, mettiamo fuori il naso e veniamo investiti da una gelida folata di vento. Bardati di tutto punto ci incamminiamo verso il dolce fianco del pizzo Tremogge. I colori della roccia sono davvero unici e contrastano con le aspre cime rocciose circostanti, piz Gluschaint su tutte. Superiamo con fatica il costone fino a pervenire alla larga cresta sommitale sempre piegati da un vento a dir poco gagliardo che quasi spazza via anche ogni emozione. Impagabile la vista sul Disgrazia e la val Sissone.
Tornati in parte sui nostri passi, traversiamo al pizzo Malenco che da qui appare tutt’altro che facile. Si lascerà invece salire e risulterà di troppo l’esserci legati. Altra cima, altra gioia. Proseguiamo alla volta dell’ultima cima, abbassandoci un poco per sfasciumi. Un salto ci impedisce di procedere oltre, scendiamo allora faccia a monte per un ripido pendio innevato. Un po’ di ingaggio rende ancor più interessante questo giro. Dal ghiacciaio, un ultimo strappo ci deposita sulla cima della Sassa d’Entova.
La lunga discesa spaccagambe la compiamo passando per l’ex rifugio Scerscen non senza aver sbagliato direzione per due o tre volte.

 

Pubblicato da: Luca | 26 giugno 2011

Gran Zebrù

Quando: 25-26 giugno 2011
Chi c’era: Luca, March, Andreis
Percorso: Albergo dei Forni – Rifugio Pizzini – Via Normale – Gran Zebrù (3857 m) – Rifugio Pizzini – Albergo dei Forni

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La soddisfazione è più che altro quella di non esserci appoggiati al rifugio. La notte in tenda, quasi totalmente insonne come tradizione vuole, ha dato modo alla mente di fantasticare sulla salita dell’indomani; ha dato sfogo a ricordi, paure, pensieri di rinuncia.
Giungiamo al campo base verso le 18 appena prima che la pioggerella, che ci ha accompagnato e rinfrescato durante l’avvicinamento, si intensifichi. Una volta montata la tenda ci buttiamo dentro per una pennichella ristoratrice di tutte le fatiche della settimana. Non usciremo più dal nostro tugurio se non per i più stretti bisogni fisiologici. Forti raffiche di vento e una pioggia lieve ma continua non invogliano certo a mettere fuori il naso. Proviamo a chiudere occhio nella convinzione assoluta che l’indomani sarà una splendida giornata di sole come d’altra parte hanno sentenziato i meteorologi.
Nemmeno i pali che ogni due per tre, sotto un vento impetuoso, premevano contro la nostra faccia ci impedivano di essere ottimisti. Semmai le preoccupazioni erano altre: saremo all’altezza dell’ascesa? Le pendenze della pala saranno alla nostra portata? Farà impressione il “baratro” sotto i nostri piedi? Un pizzico di apprensione anche per essere stato designato come primo di cordata.
Tutte queste riflessioni si fondono ben presto con i sogni e soltanto alle 3.30, al suonare della sveglia, svaniscono nel nulla. La pioggia non è cessata, le nubi sono ancora al loro posto. Ci giriamo dall’altra parte. Facciamo un nuovo timido tentativo alle 4, ma niente.. nessun accenno di miglioramento. Alle 5 è però la volta buona.. c’è gente in cammino, decidiamo di seguirla.
L’avvicinamento al Collo di Bottiglia lo compiamo in religioso silenzio, come per scacciare ogni pensiero di rinuncia. Ci leghiamo, prendiamo a salire per il canale, molto meno ripido di quanto immaginassi. Sono in gran forma ma le cordate davanti a noi ci rallentano. C’è anche chi torna indietro, mal sopportando il sempre presente vento. Affrontiamo la pala, superiamo qualche cordata e senza quasi accorgene ci troviamo sul tratto più ripido. Le condizioni della neve sono perfette (almeno così mi sembra visto che non ho metri di paragone). La picca tiene bene, mai ci sentiamo insicuri. Tarelliamo, verso la cresta per quella che mi pare la variante diretta. Pare perchè nulla ci è dato di vedere: la nebbia avvolge ogni cosa. In cresta veniamo accolti da intense raffiche che ci costringono a procedere quasi carponi. Ma la croce è lì a pochi metri. La raggiungiamo.
Intraprendiamo la discesa, faccia a monte per il primo tratto. Scivoliamo giù per la parte terminale della pala e per il Collo di Bottiglia. Finalmente possiamo slegarci, liberi di ammirare la corona di cime dei Forni che progressivamente appare. La nostra montagna si renderà visibile solo dopo essere tornati al campo base. I nuvoloni lasciano spazio ad un sole splendente che ci farà sudare ben bene lungo la discesa al parcheggio.

Pubblicato da: Luca | 19 giugno 2011

Sasso Canale

Quando: 19 giugno 2011
Chi c’era: Luca, March, Marina
Percorso: San Bartolomeo – Alpe di Mezzo – Sasso Canale (2411 m) – Alpe di Mezzo – San Bartolomeo

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